giovedì 10 gennaio 2013
Cattiveria, ma anche no.
Io non mi ricordo così tanta cattiveria come
nei tempi delle scuole medie. E del liceo poi. A parte che io ero la
canonica sfigata, o tale mi sentivo, così mi percepivo. Ma insomma,
basta poco anche ad autopercepirsi isolati, se poi mai nessuno t'invita
ad una festa di compleanno, per dire. Ma si andava dalla cattiveria
sottile del confronto, del paragone, dell'esclusione o dell'inclusione
nel branco, da parte del capobranco, -
di solito lo stronzetto/a più figo/a, più ricco/a- al ludibrio pubblico
vero e proprio, al ludibrio vero e proprio, alla presa per il culo
smodata. Tu e il branco. Non oso immaginare cosa sarebbe potuto
succedere se ci fosse stato internet, all'epoca. E parlo di venticinque
anni fa, e mi sembra ieri. Erano gli anni 80, quelli della Milano da
bere e dei Duran Duran. Ricordo bene i cazziatoni di mia madre e
l'educazione militaresca di mio padre, che allora mi sembravano
l'ennesimo abuso ad una vita senza senso. Mi salvarono loro, invece, lo
so adesso, mi salvò fare radio a sedici anni, andare in onda con un
programma mio in una radio locale (e quindi un obiettivo), la musica.
Ricordo un episodio ancora oggi, che la dice lunga di come l'adolescenza
sia entrata prepotentemente come fenomeno moderno (e quindi ancora in
fase di studio e sviluppo) nelle società "evolute", e su come ancora ci
si debbano prendere le misure: Si sparse la voce di una ragazzina che ad
una festa, infrattatasi in un cesso come una Melissa P. qualsiasi con
non so quanti ragazzi, fu poi ricoverata per eccesso di fellatio, e da
quello addirittura c'era chi giurava che le avessero fatto la lavanda
gastrica e così via in un tourbillon di cazzate che fecero sparire
ragazzina e famiglia dalla circolazione, tanto che nessuno seppe più
niente di loro. Ed erano gli anni ottanta, e non c'era internet, e i nostri
genitori erano diversi. Eppure queste storie si assomigliano tutte, oggi
come venticinque anni fa, e non c'è sociologo che ancora ci sappia dire
perchè. Però c'è quest'onda lunga di irresponsabile vuoto in cui non
solo non sei ne carne ne pesce, ma anche gli obiettivi ti sembrano
lontani (il mondo del lavoro, si ma quando per un quindicenne? Tra
dieci, vent'anni?), e definirsi in un mondo che ti ha perso di vista,
che ha smesso d'investire su di te, ti scoraggia. Non ho ricette, come
certi guru o certi colleghi che li ascolti parlare di educazione e ti
sembrano verità rivoluzionarie: dicono l'ovvio. E l'ovvio è che si è
responsabili di se stessi per essere responsabili di altri. Che per
essere responsabile di me stessa devo credere in quello che dico e
testimoniarlo con la coerenza, e che solo quello ha importanza per chi
mi sta accanto, in particolar modo per i figli. E ognuno è importante: è
ora anche di smetterla di pensare che tutto possa essere fluido,
liquido, che ogni cosa possa essere detta per scivolarci addosso senza
lasciare nulla. Non è così: è importante ripensare alle relazioni, a
come le instauriamo, al tempo che spendiamo con gli amici, la famiglia,
all'autenticità che siamo in grado di offrire. Si chiama rispetto, ed è
l'altra parola ovvia. Insieme a responsabilità. Rispetto dei sentimenti
degli altri, oltre che dei propri. Rispetto dell'incredibile potenziale
umano che sta in ognuno di noi, e che trascuriamo, anche qui, su un
social come in qualsiasi altro luogo. Basta un nonsense per escludersi,
per saltare come coyote sui cactus e lanciare invettive, montare
pregiudizi. Non ci sono più scuse per rimandare oltre. Non si cambia il
mondo se prima non si prova, almeno, a cambiare se stessi. E questo vale
ovunque ci siano relazioni umane.
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