mercoledì 23 gennaio 2013
Ti porto via
Lo sai, guardo il mare, ma non è quello che pur attraversandolo mi porterebbe da te.
Ci ho pensato tante volte, nelle giornate inzuppate di lavori trascurati, di panni stesi ad asciugare al sole, di traiettorie indaffarate aggrappato ad una valigetta per far vedere impegno e una strada da seguire.
“Vaffanculo” l’avrò detto un fottìo di volte, insieme ad “adesso prendo la macchina, m’imbarco e vado da lei.”
Ho quarantanni e una vita indecente. Una serie di pratiche da seguire in giro per cantieri smontati di cavi elettrici, mattoni, polvere e lattine di birra vuote. Talvolta piombo tra gli operai come un falco e li sorprendo a bestemmiare e dire parolacce mentre si scolano l’ennesima bottiglia, con questo caldo poi, figuriamoci, svolazzano le fighe come preghiere snocciolate in un rosario e io mi maledico per essere qui a guadagnarmi onestamente il pane e a farlo guadagnare anche a loro.
Io volevo insegnare. Ma sono diventato ingegnere, papà ci teneva tantissimo, e mamma bigotta fin nell’anima della sua messa in piega non avrebbe sopportato che io mi opponessi e io a diciotto anni non mi opposi. Feci ingegneria, ma non ne avevo voglia, e senza voglia mi laureai col massimo dei voti.
“’Fanculo, la vado a prendere” ho pensato mille volte ”Tiro un pugno a quell’ingrato di suo marito e me le carico, lei e sua figlia, perché la mia stessa scatola cranica non riesce a contenere il volume delle sue labbra e dei suoi capezzoli che premono nelle mie tempie e nei bottoni dei miei jeans.”
E vivo per quell’attimo, quell’impercettibile attimo in cui lei stupita mi troverà sulla porta.
Io volevo scrivere. Scrivevo di questo ragazzo che si ritrovava ad aprire un negozio di jeans e che sfidando la mafia e certe consuetudini della sua Palermo, un giorno non trovò più l’auto, la ritrovarono i carabinieri tempo dopo ridotta ad un cumulo di cenere, un altro fu la sua ragazza ad essere bruciata, con l’acido, come i talebani nel Nepal, e allora decise di farsi giustizia da sé, in un vortice d’ingiustizia e d’istituzioni che non ci sono o che se ci sono non stanno mai dove dovrebbero stare. Un dramma sociale insomma, una denuncia bella e buona, e avrei voluto scriverlo tutto, ma incrociavo lo sguardo di mio padre che mi diceva “Ma che minchia fai? Il frocetto che scrive poesie?” e a vent’anni, non tanto per il frocetto o per le poesie, mi convinsi che dovevo mettere su basi solide per il mio futuro.
Eccomi, ingegnere come mio padre. Ma è l’unica cosa che ci accomuna. A cominciare dalla scelta patetica di pigliarsi per moglie una donnina inutile come mia madre. Ma è mia madre ed è solo per questo che mi limito ad un eufemistico “donnina inutile”.
Sono partito da te e guarda, sono ancora qui a rivedere la planimetria dei miei fallimenti.
Tu mi hai detto di finirlo quel romanzo. A me del romanzo non importa quasi più nulla, se non per quanto tu sai dirmi alla fine di ogni capitolo. Io come Penelope lo cancello e lo riscrivo per avere la scusa di chiamarti, di mandartelo via mail e sapere cosa ne pensi. E tu trovi sempre qualcosa di bello da dire. Come il giorno che c’incontrammo. In quel borgo sperduto del Salento. E ancora non ti eri sposata, saresti stata mia per sempre, mia-per-sempre, a ripensarci ora mi trema il cuore e mi maledirei per essere stato così stupido e sciocco, averti incontrata e lasciata andare, ma le distanze ci sembravano enormi, tu stavi lassù e io quaggiù, dovevi ancora laurearti e io non avevo uno straccio di lavoro, e ricordavo ogni centimetro della tua pelle profumata e ogni pensiero di sprovveduta innocenza riempire di suoni le tue risate. Mi sono innamorato di te allora e non te l’ho detto mai. E da allora io ti mando i miei files, e da allora indago i tuoi umori, e ti sento infelice, e vorrei prendermi a pugni per non esserti corso incontro quel giorno che mi dicesti, prima delle nozze, ”non ti ho dimenticato mai”.
Sono arrivato tardi, un giorno, sono arrivato come un ladro e ti ho rubato un pomeriggio, e abbiamo fatto l’amore per ore e come un ladro me ne sono andato lasciandoti in lacrime. “Perché adesso?”
E poi nacque Teresa. E io come un coglione continuo a scrivere una storia che cancello, e a litigare con geometri e sindaci che non capiscono un cazzo, ad arrotolarmi tra appalti truccati, invece di venirti a prendere, perché io so che tu sei mia, e forse lo è anche Teresa.
sabato 19 gennaio 2013
brevissima dinamica di coppia
Ci sono uomini che nel pieno delle loro facoltà mentali pensano di spaventarti dicendo "Guarda che non torno, eh, dormo fuori!". Cazzo che intelligentoni, non conoscono l'opzione - WOW, figo così quando torni non ti apro! -
Ma vaffanculo, va'.
Ma vaffanculo, va'.
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mercoledì 16 gennaio 2013
Elezioni: la mia lista. Coerentemente.
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lunedì 14 gennaio 2013
Coming out (maddai??)
La notizia del giorno, è che a me
dell'orientamento sessuale di una persona non me ne può fregare una
beneamata fava. Calmi, calmi, prima di avvertirmi che sono madre, che
potreste telefonare al Moige, e anche al parroco dove mia figlia
frequenta il catechismo. Mi dispiace ma non posso fare a meno di
considerare che nel 2013 anche solo l'idea di starne a parlare, sia una
stratosferica cazzata. La notizia sarà
tale quando ognuno sarà considerato per il clima di benessere in termini
di onestà, intelligenza, impegno sociale e civico, apportato alla
società. Ma proprio per dirvela tutta, trovo anche anacronistico stare a
discutere se due omosessuali si amino come selvaggi o pudicamente come
fidanzatini di Peynet, e trovo anche quantomeno inaccettabile che non si
possa serenamente discutere sull'opportunità di aprire non solo alle
coppie gay, ma anche alle adozioni. Con tutti i dubbi del caso, certo,
ma anche con l'ausilio che gli strumenti scientifici, sociologici,
psicologici ci mettono a disposizione. Ecco, stare ancora a
rappresentarsi mentalmente la scenetta torbida dei due gay che non si
contengono e s'inchiappettano appena svoltato l'angolo della cucina, è
un pregiudizio. Non lo fa una coppia etero, in presenza di bambini, non
vedo perchè lo debba per forza fare una coppia gay. Ah, poi c'è quella
cosa del contronatura. Peccato che in natura 457 specie animali che
vanno dai Primati passando per i felini lo trovino naturale. Ora
davvero, io sono convinta che la forza di un essere umano, stia nel suo
talento intellettivo, nella sua generosità, nella capacità di stare al
mondo relazionandosi con gli altri in modo empatico, contribuendo a fare
si che questo sia un posto migliore per tutti. Mi dispiace, non posso
fare a meno di pensare così, perchè nel tempo ho imparato a guardare
l'anima delle persone, gli occhi, e non i loro genitali o i loro
comportamenti sessuali. Il resto ai miei occhi, non conta nulla.
Conta
solo l'amore.
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giovedì 10 gennaio 2013
Cattiveria, ma anche no.
Io non mi ricordo così tanta cattiveria come
nei tempi delle scuole medie. E del liceo poi. A parte che io ero la
canonica sfigata, o tale mi sentivo, così mi percepivo. Ma insomma,
basta poco anche ad autopercepirsi isolati, se poi mai nessuno t'invita
ad una festa di compleanno, per dire. Ma si andava dalla cattiveria
sottile del confronto, del paragone, dell'esclusione o dell'inclusione
nel branco, da parte del capobranco, -
di solito lo stronzetto/a più figo/a, più ricco/a- al ludibrio pubblico
vero e proprio, al ludibrio vero e proprio, alla presa per il culo
smodata. Tu e il branco. Non oso immaginare cosa sarebbe potuto
succedere se ci fosse stato internet, all'epoca. E parlo di venticinque
anni fa, e mi sembra ieri. Erano gli anni 80, quelli della Milano da
bere e dei Duran Duran. Ricordo bene i cazziatoni di mia madre e
l'educazione militaresca di mio padre, che allora mi sembravano
l'ennesimo abuso ad una vita senza senso. Mi salvarono loro, invece, lo
so adesso, mi salvò fare radio a sedici anni, andare in onda con un
programma mio in una radio locale (e quindi un obiettivo), la musica.
Ricordo un episodio ancora oggi, che la dice lunga di come l'adolescenza
sia entrata prepotentemente come fenomeno moderno (e quindi ancora in
fase di studio e sviluppo) nelle società "evolute", e su come ancora ci
si debbano prendere le misure: Si sparse la voce di una ragazzina che ad
una festa, infrattatasi in un cesso come una Melissa P. qualsiasi con
non so quanti ragazzi, fu poi ricoverata per eccesso di fellatio, e da
quello addirittura c'era chi giurava che le avessero fatto la lavanda
gastrica e così via in un tourbillon di cazzate che fecero sparire
ragazzina e famiglia dalla circolazione, tanto che nessuno seppe più
niente di loro. Ed erano gli anni ottanta, e non c'era internet, e i nostri
genitori erano diversi. Eppure queste storie si assomigliano tutte, oggi
come venticinque anni fa, e non c'è sociologo che ancora ci sappia dire
perchè. Però c'è quest'onda lunga di irresponsabile vuoto in cui non
solo non sei ne carne ne pesce, ma anche gli obiettivi ti sembrano
lontani (il mondo del lavoro, si ma quando per un quindicenne? Tra
dieci, vent'anni?), e definirsi in un mondo che ti ha perso di vista,
che ha smesso d'investire su di te, ti scoraggia. Non ho ricette, come
certi guru o certi colleghi che li ascolti parlare di educazione e ti
sembrano verità rivoluzionarie: dicono l'ovvio. E l'ovvio è che si è
responsabili di se stessi per essere responsabili di altri. Che per
essere responsabile di me stessa devo credere in quello che dico e
testimoniarlo con la coerenza, e che solo quello ha importanza per chi
mi sta accanto, in particolar modo per i figli. E ognuno è importante: è
ora anche di smetterla di pensare che tutto possa essere fluido,
liquido, che ogni cosa possa essere detta per scivolarci addosso senza
lasciare nulla. Non è così: è importante ripensare alle relazioni, a
come le instauriamo, al tempo che spendiamo con gli amici, la famiglia,
all'autenticità che siamo in grado di offrire. Si chiama rispetto, ed è
l'altra parola ovvia. Insieme a responsabilità. Rispetto dei sentimenti
degli altri, oltre che dei propri. Rispetto dell'incredibile potenziale
umano che sta in ognuno di noi, e che trascuriamo, anche qui, su un
social come in qualsiasi altro luogo. Basta un nonsense per escludersi,
per saltare come coyote sui cactus e lanciare invettive, montare
pregiudizi. Non ci sono più scuse per rimandare oltre. Non si cambia il
mondo se prima non si prova, almeno, a cambiare se stessi. E questo vale
ovunque ci siano relazioni umane.
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domenica 6 gennaio 2013
Vuoti a Perdere (nel mezzo del cammin senza aver lasciato mentalmente le scuole medie)
Di recente ho assistito in FB alla querelle
tra un amico e un suo presunto amico. Ad un certo punto il presunto
amico rinfaccia all'altro di essere stato buttato fuori dalla compagnia
per non so quali presunti torti. La cosa mi ha fatto riflettere. Se si
trattasse di adolescenti, anche tardo adolescenti, la cosa sarebbe
normalissima, un rito di passaggio cui è impossibile sottrarsi, il
cerchio chiuso, il branco etc. Ma il
caso in questione riguarda persone che hanno superato da diverse lune la
fase "ciccia e brufoli", e quindi è anomalo sentire dire da un adulto
"sei stato buttato fuori dalla compagnia" quasi che la "compagnia" sia
l'unico metro di socializzazione. Rimanda ad una prospettiva della vita
in cui individui adulti, lontani dall'unica forma di apparentamento che
ha dominato per secoli, cioè la famiglia e le sue tradizioni, si
apparentassero sull'onda di un vuoto da colmare, - la cena, l'happy
hour, l'inaugurazione di un nuovo locale, l'essere tifosi di una squadra
piuttosto che un'altra-. In tali gruppi si intersecano diverse passioni
tra persone che non condividono di fatto un valore, ma un vuoto a cui
dare valore, e si vengono a creare sia nel web che fuori, i medesimi
giochi di ruolo in cui esiste un presunto leader, un gruppo di sostegno,
che se la canta e se la suona e che induce (talvolta in maniera
ambigua) il membro non in sintonia ad andarsene. E' la società che
scorre veloce, conoscenze approssimate su una medesima scala di pseudo
valori, una botta e via, non mi piaci più ti banno, o ti evito per
strada, così senza un perchè, o solo perchè non confermi più la mia
identità di ruolo, dando ragione alle mie presunte certezze. Questo mi
appesantisce l'anima.
*PS: la focosa interazione è nata da una considerazione giudicata blasfema e irriverente sul mondo del calcio, i calciofili, da presunti tifosi che non hanno potuto sopportare che ci fosse, perfino, gente a cui di tale materia non solo non ne potesse fregare un beato cazzo ma giudicasse il fenomeno roba da terza media.
*PS: la focosa interazione è nata da una considerazione giudicata blasfema e irriverente sul mondo del calcio, i calciofili, da presunti tifosi che non hanno potuto sopportare che ci fosse, perfino, gente a cui di tale materia non solo non ne potesse fregare un beato cazzo ma giudicasse il fenomeno roba da terza media.
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mercoledì 2 gennaio 2013
Cinquanta sfumature di sardo (ma anche meno!)
" La Sardegna ancora mi ricorda Malta. Persa tra Europa e Africa, appartiene a nessun luogo, non essendo mai appartenuta a nessun luogo. Alla Spagna e agli Arabi e ai Fenici, più di tutto. Ma come se non avesse mai veramente avuto un destino. Nessun fato. Lasciata fuori dal tempo e dalla storia.(D.H, Lawrence)"
E no, mio
caro Lawrence, la Sardegna (che d’ora in poi definirò l’Isola per antonomasia)
non è stata lasciata fuori dal tempo e dalla storia. Dalla storia ci sono
arrivati praticamente tutti e in tutti i tempi (dai fenici alle olgettine e i tronisti), e tutti siamo
riusciti a mandarli via, certo, dopo avere permesso che facessero danni quasi
irreparabili; ma gran parte della nostra fierezza e dignità è rimasta integra.
Restano ancora un paio di cose da definire, che ne so, la continuità
territoriale, inculcare per bene a tutti che non siamo coloni (questo è uno dei
danni quasi irreparabili), le rivendicazioni del nostro statuto autonomo, ma
sono certa che tra un paio di generazioni saremo a cavallo. No, non quello
della Giara di Gesturi. Quello, insieme ai fratellini, lo lasciamo ai turisti e
al trenino verde, stanno lì da secoli e guai a chi ce li tocca.
Questo è un
piccolo vademecum per te, turista che arrivi e conosci solo Alghero,
Santeodoro, Villasimius e La Pelosa. E il mare, certo, il mare che è una
favola, uno spettacolo, ma dove lo troviamo un altro mare così.
Infatti,
fattene una ragione, non lo troverai.
O lo
troverai senza i sardi e ti perderai gran parte del divertimento.
Innanzitutto
perché i sardi nascondono curiosità dietro badilate di diffidenza: girovagando
di paese in paese, ti potresti ritrovare inchiodato alla sedia di un bar per
ore, a bere, a giocare alla morra, ad indovinare che cosa significhino
espressione locali. Loro dicono che lo fanno per ospitalità: invece vogliono
sapere che cazzo ci sei venuto a fare nel loro paese. Conosci il codice
barbaricino, per esempio? No? Imparalo, e in fretta. Potrebbero pensare che sei
un giudice sotto mentite spoglie o peggio un maresciallo dei carabinieri. Una
volta inebetito dall’alcool e tranquillizzatisi che sei veramente un turista,
ti trascineranno nelle loro case dove potrai trovare vitto e alloggio e musica.
Il vitto non è male, ci mancherebbe. Enormi freezer a pozzo nascondono nelle
cantine quintalate di ravioli e malloreddus fatti in casa (le donne del luogo
vivono con l’incubo dell’ospite improvviso e ne producono quantità industriali,
perché non si sa mai), mentre dai soffitti pendono salumi in stagionatura o
stagionati che vengono subito lavorati per permetterti di assaggiarne un po’,
quei due o tre chili prima di pasto, insieme ad un quarto di forma di pecorino
che non si nega a nessuno, neppure ai carabinieri.
Poi, ci sono
le sagre, le processioni, i costumi variopinti, Su Ballutundu, e il piri piri
delle launeddas. E non ridere che le launeddas sono cosa seria. Ci vogliono
canne speciali, da lavorare in modo speciale, e un esercizio pauroso per
emettere quella melodia. Un suonatore di launeddas ha le guance come quelle di
Louis Amstrong mentre suonava la tromba.
I sardi
hanno rapporti conflittuali con il mare e con il continente che è un luogo
lontano: perfino un non luogo parafrasando Augè (un antropologo francese, nulla
di che). E la cosa divertente è che il sardo misura le distanze in base alla
sua isola. E se, faccio per dire, il viaggio Cagliari Sassari gli sembra
un’odissea, tanto da fargli venire voglia di riempirsi di vernaccia una
borraccia, e la bisaccia di pane carasau e pecorino, rincorrendo le origini
ataviche della transumanza, una volta in continente il concetto della distanza
si resetta e tutto sembra a portata d’auto. Non è difficile sentire dire “Mah,
una volta che eravamo a Torino, siamo andati a Bari, tanto eravamo già lì”.
Lì dove??
Ma poi, caro
Lawrence (e caro turista), ti sei dimenticato di dire, che noi la storia
l’abbiamo fatta: nessuno ci ha preso sul serio. Vorrei raccontarti di Eleonora
D’arborea, pensa te, una donna, che alla fine del 1300 diventa giudicessa del
Giudicato d’Arborea (veri gioiellini di democrazia), e aggiorna la Carta de
Logu, promulgata dal padre, introducendo note significative a tutela delle
donne, e dell’autonomia del popolo sardo, contro l’usura e molto altro ancora..
La Carta de Logu resterà in vigore fino al 1827, soppiantata dal codice di
Carlo Felice (felice una beata fava).
Ecco, d’ora
in poi, quando ti capiterà di sbarcare sull’isola, ricordati che stai
passeggiando sulla terra dell’unico premio nobel donna della letteratura Grazia
Deledda, dei tanti talenti letterari e artistici (bastano Gramsci, Fois, Niffoi, Murgia,
Satta, Ledda, Antonio Marras e Modolo– stilisti internazionali – Gavino Sanna –
pubblicitario - Benito Urgu, Andrea Parodi, e ci metto pure
De Andrè che qui scelse di vivere, di Eleonora d’Arborea e tanti altri che mi
sfuggono)?
E noi sardi,
ce lo ricordiamo, che abbiamo la terra, il sole, il mare, e il genio che appartiene
solo a noi e che ci permette di essere autonomi e di esportare valori e
democrazia, perché la democrazia noi, lo stato di diritto, l’abbiamo imparato
prima di tutti?
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