sabato 18 maggio 2013

"Io non farò rumore" il libro perfetto di Lara Cardella


Lara Cardella racconta una storia -“Io non farò rumore” ed. Barbera - che ricama la maglia dei sentimenti con un ago che si uncina alla pelle, precipitando il lettore in un baratro in cui riconoscere da subito tutte le trappole di un familismo culturale imperante e degli stereotipi forzati delle dinamiche di coppia: dal fidanzamento, al matrimonio, alla genitorialità e al divorzio. Fino all'esplosione rabbiosa e isterica in cui il vero nodo da dipanare è il concetto del possesso e del controllo, in una relazione in cui crudeltà e senso di rivalsa sull'"oggetto donna" perduto prendono il sopravvento.
In mezzo, un bambino conteso e la forza di una madre, Mariella, che non perde mai lucidità e fermezza, pagando poi con la perdita di sé il proprio atroce dolore. Mariella, che non ricorda, dimentica se stessa, la sua famiglia, ovattata dalle soffocanti attenzioni di parenti che vogliono proteggerla (o forse proteggere se stessi dalla colpa di avere sottovalutato situazione e segnali), Mariella che recupererà se stessa nel silenzio ma parlando e ascoltando la sua voce tramite un registratore,  alla ricerca della verità, incapace di accontentarsi dei morsi di passato che tutti stanno attenti a porgerle senza mai dire nulla per davvero.
Mariella che si svela e rivela in una forza che si trasformerà in denuncia.
Perchè "Io non farò rumore" è anche una presa di coscienza, una forte accusa sociale: di stalking, di molestie, di indifferenza, dell’offesa che non potrà mai essere recuperata o addolcita, per quanto il racconto rimanga sempre sospeso sul dubbio che Mariella nemmeno si accorga di essere vittima di un abuso, ma anzi che in certi tratti ne sia stata addirittura complice in alcuni momenti di devozione ipertrofica al marito.  Il tutto senza scivolare mai nella presa di posizione netta di una parte piuttosto che di un’altra: anche la figura del coprotagonista Angelo, viene seguita con accoglienza possibilista, senza vomitare torti e ragioni, senza usare toni di pancia retorici e assolutamente inutili per spiegare il percorso psicoemotivo (e educativo) che porta a gesti di violenza, spesso assolutamente prevedibili se solo ci fosse maggior attenzione.
E’ una bella storia, questa,  che parla a tutti di dignità e coraggio: dalla parte delle donne certo, ma anche spunto di riflessione per tutti, donne comprese, su quanto siano importanti l’attenzione e la condivisione.
Il testo poi si arricchisce anche di importanti cameo di Francesco Aprile a cui va l’onore di introdurre ogni capitolo con alcuni suoi versi  che vanno ad intrecciarsi nella narrazione rendedola ancora più intensa  di significati.  A me è piaciuto moltissimo.

 cit. "Ma non si può accendere un fuoco e non badare, poi, che non diventi un incendio: brucia tutto e la colpa non è dell'erba che si trovava attorno" (Lara Cardella)
"Ma dare amore alla pietra
lo sai, non basta a darle vita." (Francesco Aprile)

venerdì 3 maggio 2013

Quelli che mi danno sui nervi.

I/LE DIECI TIPI/E CHE MI DANNO AI NERVI.

1 - Quelli che, appena conosciuti e dopo avere trascorso una piacevole serata insieme, si sperticano in lodi, "dobbiamo assolutamente rifarlo, siamo stati benissimo, ci risentiamo presto", e poi, naturalmente non li vedi ne senti più nè tantomeno ricevi risposta ad un sms. Inutile dire che la cena l'hai offerta tu.
2 - Quelli che bucano un appuntamento o fanno ritardo e dicono "ma non hai letto la mail?". No, non l'ho letta, non potevi chiamare?
3 - (Per soli uomini) Quelli che fanno gli splendidi, ti assecondano, sottolineano l'aura e la magnificenza del tuo intelletto, per poi sentenziare tramite sms "sei troppo complicata".
4 - (per sole donne) Quelle che fanno le splendide con qualcuno, che gliela sventolano sotto il naso come la bandiera ai mondiali, e raccontano tutto il tempo di quanto si sentano infelici senza quello stronzo là che se le trombava così bene.
5 - Quelli che non leggono, o che ti pigliano per il culo se lo fai e ne parli, e se usi un italiano variegato, bollandoti subito come radical chic.
6 - Quelli che devono mentire per forza, per darsi un tono, per accattivare l'interlocutore, che inventano saghe familiari, che ti raccontano che a loro va sempre tutto benissimo, e che ti guardano con compassione anche se gli racconti di un male incurabile.
7 - Quelli che aspettano di vedere le tue debolezze per attaccarti con l'artiglieria pesante.
8 - Quelli che "Ma davvero non guardi la televisione?"
9 - Quelli che "Ma davvero vai al cinema da sola?"
10 - Quelli che ignorano per grettezza, snobismo, faciloneria ogni cosa dell'universo mondo e si mettono a polemizzare biascicando (in un pessimo italiano) teorie sull'inutilità del tutto: con essi mi trasformo, investita da una luciferina presunzione tirando fuori la carogna solitamente assopita.

lunedì 11 marzo 2013

Se non ora quando. Ma perchè?

Leggo di un ennesimo personaggio tv, molto radical chic, che pubblica un libro. Di ricette? No. Donne morte. Che è diventato comunque il pane attraverso cui media e tv hanno imparato a nutrirsi. Panem et circenses, quindi, meglio se irrorato di sangue scarlatto in piena reminescenza latina.
Ora, io non ho niente contro questa meta fenomenologia che si ricollega ad un'altra fenomenologia: cioè quella della violenza. Figuriamoci ne parlo da tempo. Ma vorrei spiegare perchè guardo con diffidenza a queste voci che dalla nascita del movimento "Se non ora quando?" sono spuntate come funghi e dalle quali non mi sento rappresentata. Tutte grandi donne, per carità passando per le Dandini, Comencini, Caputo, e tutte le attrici, scrittrici, sceneggiatrici che conosciamo come autrici a sostegno di questo movimento.
Innanzitutto non mi rappresentano, perchè costituiscono un enorme fallimento culturale e sociale. A sessant'anni suonati, dopo avere sdoganato senza mai fiatare un pessimo cinema, una pessima immagine femminile culturale, anche pessima letteratura, e per pessima intendo mai di denuncia, per strane coincidenze aspettano il declino totale della moralità, (subito dopo i fatti del bunga bunga), per rilanciarne un'altra. E se c'è una cosa che non può andare a braccetto con le istanze femministe, sicuramente è quel tipo di moralità. (e cioè l'essere donne perbene per non intaccare l'onorabilità dei maschi di casa).
Insomma a sessant'anni, dopo avere assistito impassibili ad una politica, all'industria dello showbusiness e ad un'economia pericolosissime per il solo fatto di avere ricondotto il femmineo in spazi ancora più pretenziosi (l'essere bellissime, giovanissime, professioniste di successo, ottime a fare i soufflè, e madri e mogli impeccabili), in una sorta di ideologia multitasking fallimentare, si riuniscono in un movimento senza riuscire ad attecchire davvero nelle più giovani. Perchè? Perchè non sento abbiano credibilità, perchè ci si chiede dove fossero sino ad adesso, e perchè non vadano a denunciare quegli aspetti macroscopici piccolo borghesi che ancora ammorbano l'anima di molti vissuti.
Il fatto è che forse, pur avendo risolto parecchi conflitti materni, non ci fidiamo delle nostre mamme, perchè sappiamo come ci hanno educate e come hanno educato i nostri fratelli, e non ci fidiamo di improvvise e nuove prese di posizione. Non sono credibili. Ed ecco la disaffezione delle più giovani.
Dall’altro lato non è possibile procedere senza una disanima critica e lucidissima sui nostri privati. Partendo per esempio dal lavoro domestico, che in Italia è un problema perchè non è condiviso all'interno di un nucleo familiare (le famose "cure parentali") e perchè ce n'è troppo da fare. E qui passo la parola ad una bravissima autrice:"Le norme borghesi che altrove appartengono solo a determinate classi sociali (che si possono permettere aiuti domestici di vario tipo), per cui la casa deve essere sempre lustra, la cera passata, l’argenteria lucidata, e due pasti caldi al giorno (magari con più di una portata) sono d’obbligo, sono da noi una pratica interclassista, ed è proprio questa la nostra maledizione.

Non possiamo pensare ad una vita più libera ed emancipata se continuiamo a pensare che tanti lavori domestici in realtà superflui ed accessori siano assolutamente necessari. E che cos’è questa, se non la critica di una norma sociale che crea forme di pressione informale oppressive – soprattutto, cosa ancor più problematica, esercitate spesso dalle donne sulle donne? Il problema, vale a dire, è che sono troppi gli ambienti sociali in cui avere una casa con un po’ di polvere, o dare una pizza surgelata per cena ai propri figli, non è socialmente accettabile. Ma forse questo dovrebbe indurre ad un po’ più di cautela anche in altri ambiti: forse esistono anche troppi ambienti in cui non avere sempre un aspetto giovanile ed impeccabile, o non mostrarsi sempre disponibile (anche sessualmente), escludono le donne dal gioco. Nel primo come nel secondo caso, questo non deve tradursi in un giudizio delle donne emancipate nei confronti delle schiave del pavimento che brilla piuttosto che del botox, bensì nel riconoscimento che creare atmosfere sociali in cui stili di vita diversi sono accettati non può non essere parte integrante del femminismo – e che questo non può avvenire solo tramite leggi ed istituzioni, ma ha bisogno di una pratica educativa e di trasformazione sociale anche più informale." (Cit. Valeria Ottonelli)
E se il problema della libertà di una donna, è ancora oggetto di discussione fra le pareti dell'autostima della donna stessa, se non ne siamo certe noi che deteniamo ancora nelle famiglie e nelle scuole autorevolezza educativa importante, se l'obiettivo da raggiungere è ancora quello della nostra convinzione, continueremo a contare il numero di donne ammazzate, picchiate, osteggiate, molestate, date per scontate. Non si scappa
.

martedì 5 marzo 2013

Il corpo delle donne e la distanza dell'intelletto

*Questa riflessione nasce nel 2009, in seguito ad un fatto di cronaca riguardante lo stupro di gruppo e la difesa patetica di una comunità verso gli aggressori. E' uno dei tanti pezzi scritti prima che si diffondesse il neologismo "femminicidio" e prima dei girotondi di se non ora quando.


IL CORPO DELLE DONNE E LA DISTANZA DALL'INTELLETTO.
(di Patrizia Cadau Novembre 2009)

Attento.
Dalla cenere io rivengo
Con le mie rosse chiome
e mangio uomini come aria di vento.

Rubo a Sylvia Plath la chiusa della sua bellissima Lady Lazarus, e parto da qui, da uno strato di polvere che ci ricopre fino a renderci invisibili e lontane, qualcosa di cui nemmeno parlare più.
Assisto da anni, al blaterare convulso e sincopato di quote rosa, diritti, omicidio in famiglia, 194, pillola del giorno dopo, infibulazione, violenze domestiche, stupro. Mi fermo qui, allo stupro, cercando di scuoterlo dalle pareti solide del vostro/nostro pensiero abitudinario, assuefatto, riportando la parola alle sua proporzioni tragiche. Ognuna di quelle parole che ho scritto più su, veicola vagoni di tragedie collettive e personali, ognuna di quelle parole viene riproposta uguale concettualmente, ma diversa per luoghi e protagonisti, in ogni tempo e luogo in cui l’umano abbia messo piede.
Ognuna di quelle parole, anche il numero 194, riporta semanticamente ad un proliferare insulso di dibattiti di gente che è uscita da una vagina una volta senza probabilmente nemmeno più rientrarci, o di gente che vorrebbe entrarci ma non può o non sa, e comunque, non potrebbe mirare ad altro, non di certo ad un anima o al pensiero di una donna. Non voglio inchiodare alle assi della propria ineducata responsabilità i maschi, per carità, i maschi hanno avuto madri che hanno perpetuato un modello becero e conveniente, e per questo non sono superiori né inferiori, in taluni casi neppure vittime. Complici e basta.
Basta assistere alla serena rassegnazione con cui veniamo bistrattate, usate, volgarmente clonate in prototipi gommosi, denudate all’eccesso, con mutande sempre più somiglianti a giro clitoridi, oppure coperte fino a non poter vedere se non attraverso una retina.
I tempi sono quelli che sono, ma se fino a ieri ci potevamo nascondere dietro facili mancanze di consapevolezze, oggi no, questo non è permesso. E’ intollerabile, ributtante che siamo ancora qui a raccontarci di uno stupro giustificato da una comunità quasi come una bravata di poveri anatroccoli sfuggiti all’ala comprensiva della mamma e del buon senso, mi è insopportabile vedere ragazzine adoranti scrivere messaggi adoranti e deliranti indirizzati ai carnefici, mentre ad una loro coetanea veniva strappato a morsi, schiaffi e a colpi di cazzo la vita, il futuro, la spensieratezza. Inorridisco di fronte a questa gente complice, a queste giovani donne (ma le madri dove sono?), questo clima in cui sembrerebbe ovvio, civile, scontato, che non ci fossero parti in cui stare, talmente grande ed evidente la colpa, talmente grande ed evidente la parte in cui stare, quella degli onesti, che ancora provano vergogna per se stessi, la vergogna degli onesti di cui parlava Primo Levi ne “La tregua” quando incrociava gli sguardi dei primi soldati russi nel campo, che non potevano credere che si fosse arrivati a tanto.
Noi a quel tanto stiamo arrivando. Montalto di Castro, un paesino inutile come il suo sindaco, ci è arrivato.

Ricordo tempo fa, facevo il liceo, per un anno si parlò di una ragazza che durante una festa di compleanno si prestò a tante di quelle fellatio che fu portata d’urgenza all’ospedale per una lavanda gastrica. Io quella ragazza la ricordo benissimo, ricordo bene anche che d’improvviso un giorno non venne più a scuola. La sua famiglia si trasferì. Era un civile paese del nord quello di cui parlo, e la ragazza in questione nulla di più che una ragazzina esuberante con la fissa per Madonna. Immagino che ora stia bene, ma non oso immaginare come abbia passato quel tempo, mi chiedo perché nessuna di noi l’avesse difesa, perché una cosa tanto greve può degenerare fino a diventare marchio a fuoco sulla pelle viva di qualcuno. Con la complicità di tutti. A Montalto è successo di peggio, naturalmente. Con i poveri anatroccoli e il comitato di ragazzine che fanno il tifo e gli adulti che ci meravigliano con perle di saggezza tipo“Avrei fatto la fila anche io”. I media, ci dicono, distorcono. Distorcono e parecchio, ma la rete non mente, e la rete dice. Dice che siamo complici. Non vittime.

Esibiamo disprezzo di fronte alle lapidazioni iraniane, ai pestaggi rumeni, mentre nel settanta percento delle nostre abitazioni permettiamo ai nostri uomini, figli, fratelli, compagni, di pretendere, ci spalmiamo sul loro sentire, sintonizzandoci su ogni maschiocazzata comprensiva di ogni delegittimazione di responsabilità. Che sia pure un carico di lavatrice o lo stiramento di una camicia. Permettiamo di svenderci al mercato delle siliconate, andiamo in crisi per una ricrescita, una ruga, non battiamo ciglio di fronte alle macro cagate con cui c’imbottiscono in televisione, le testate di gossip vendono milioni di copie. E di alcuni premi nobel non si trova più traccia, come la Jelinek, per esempio, Elfriede Jelinek con il suo “Le amanti” non esiste più in italiano. Alfonso Signorini e i suoi grandi fratelli e sorelle smutandati si, e la Jelinek no. Perché?
Perché non sento partire un urlo collettivo, lancinante, più forte di questo chiacchiericcio sterile, perché non sento l’urlo per Marinella, per ogni donna offesa, perché non sento le donne stesse farlo, unite, compatte.
Mi è bastato leggere questa mattina la “discreta” Serracchiani, incapace di unirsi ad un moto di sdegno evidente, per capire che siamo lontani da quell’urlo, da quella presa di distanza per riportare proporzione e dignità al nostro sopravvivere da aliene nel nostro stesso pianeta.
(Patrizia Cadau, 11/2009)

giovedì 28 febbraio 2013

Altri tipi di mortificazione domestica

"Farsi una famiglia" significa spesso confinarsi in uno spazio fisico e mentale determinato, in cui tutti si accomodano con le proprie aspettative. Per una donna, scardinare la presuntuosità di queste aspettative è una fatica immane. Il tempo sottratto a lavoro e famiglia viene percepito con diffidenza, spesso ostacolato, e comunque mai incoraggiato, se va ad intaccare il surplus di attenzioni di cui ciascuno si sente privato. Figli, partner, genitori. Fino alla mortificazione di sé.
Che è un altro tipo di femminicidio, sottile e bastardo.
Rinunciare ai propri spazi per paura del pregiudizio, della colpevolizzazione cui siamo sottoposte da un retaggio culturale resistente e dominante, rassegnarsi all'idea di multitasking con cui ci martirizziamo le ovaie da secoli, come se Simone de Beauovoir non fosse mai passata su questo pianeta, significa gettare nel futuro i semi di questo limite anche per le prossime generazioni. Ma significa anche adesso, concedere agli altri di pensare che quello sia il vostro spazio e basta come se non ne esistessero altri da rivendicare.
Fate quel che vi piace, il più possibile, fatelo a prescindere dalla necessità impellente che i grembiuli dei vostri figli siano in ordine, non sia mai che abbiano una manica spiegazzata, andate al cinema, uscite, leggete, divertitevi il più possibile.
Leggerezza, Signore mie.
Nessuno ha più bisogno di piantonare con ossessione l'idea che si sia in grado di gestire impeccabilmente anche la complessità. Lo si dimostra quotidianamente da millenni.

lunedì 18 febbraio 2013

Uomo Morde Cane (finalmente satira in Italia)


Massimiliano Zulli è fantastico. Arriva al lettore, e soprattutto viene alle lettrici. (Questa è facile)
Scrive molto di più di una dannata battuta che invidio non solo per non averla scritta io. Ma nemmeno pensata. (Ok, le battute sono molte più di una.)
E' il suo registro pirotecnico che è straordinario.
La lingua, il codice, la cifra culturale che traspare.
Questo purtroppo ne fa un articolo per pochi eletti: lui lo sa, naturalmente, smonta le debolezze, scardina le certezze collaudate di chi legge, convinto che un testo comico debba essere così e colà. Lui può prendere le parole e farci quello che vuole, pigliare una situazione storica filosofica sociale e piegarla al paradosso linguistico e concettuale. Il risultato sarà sempre una battuta che non ti aspetti, una genialata che ti colpisce per l'azzardo e l'intelligenza.
Lui può inserire una nota e farla diventare motore di un capitolo.
Io mi sono divertita tanto. Pure se vado in chiesa e non so parcheggiare. (Questa la capite a fine lettura, di UomoMordeCane intendo)
Ma non voglio ripetermi, dicendo che mi sono solo divertita.
Del resto anche mio marito ha fatto la sua parte mentre con l'altra mano tenevo il Kindle (Ok. La smetto).
Ecco, questo è un testo polisemico, con infinite possibilità di letture diverse che alla fine lascia tristi perché è finito, nervosi perchè ha creato dipendenza e si deve ricorrere immediatamente al blog per scovare tutto ciò che non sapevamo ma che dovremmo sapere, e appagati per avere restituito la certezza di sapere qualcosa di più.
Questa è satira, dissacrante, onestissima nel suo politicamente scorretto, traumatica per bigotti e benpensanti. Uno strumento di difesa indispensabile per sopravvivere alla staticità. Una cosa sconosciuta in questo paese.
A cui Zulli regala speranza.

http://www.amazon.it/s/ref=nb_sb_noss?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85Z%C3%95%C3%91&url=search-alias%3Daps&field-keywords=uomo+morde+cane

mercoledì 23 gennaio 2013

Ti porto via


Lo sai, guardo il mare, ma non è quello che pur attraversandolo mi porterebbe da te.
Ci ho pensato tante volte, nelle giornate inzuppate di lavori trascurati, di panni stesi ad asciugare al sole, di traiettorie indaffarate aggrappato ad una valigetta per far vedere impegno e una strada da seguire.
“Vaffanculo” l’avrò detto un fottìo di volte, insieme ad “adesso prendo la macchina, m’imbarco e vado da lei.”

Ho quarantanni e una vita indecente. Una serie di pratiche da seguire in giro per cantieri smontati di cavi elettrici, mattoni, polvere e lattine di birra vuote. Talvolta piombo tra gli operai come un falco e li sorprendo a bestemmiare e dire parolacce mentre si scolano l’ennesima bottiglia, con questo caldo poi, figuriamoci, svolazzano le fighe come preghiere snocciolate in un rosario e io mi maledico per essere qui a guadagnarmi onestamente il pane e a farlo guadagnare anche a loro.

Io volevo insegnare. Ma sono diventato ingegnere, papà ci teneva tantissimo, e mamma bigotta fin nell’anima della sua messa in piega non avrebbe sopportato che io mi opponessi e io a diciotto anni non mi opposi. Feci ingegneria, ma non ne avevo voglia, e senza voglia mi laureai col massimo dei voti.
“’Fanculo, la vado a prendere” ho pensato mille volte ”Tiro un pugno a quell’ingrato di suo marito e me le carico, lei e sua figlia, perché la mia stessa scatola cranica non riesce a contenere il volume delle sue labbra e dei suoi capezzoli che premono nelle mie tempie e nei bottoni dei miei jeans.”
E vivo per quell’attimo, quell’impercettibile attimo in cui lei stupita mi troverà sulla porta.

Io volevo scrivere. Scrivevo di questo ragazzo che si ritrovava ad aprire un negozio di jeans e che sfidando la mafia e certe consuetudini della sua Palermo, un giorno non trovò più l’auto, la ritrovarono i carabinieri tempo dopo ridotta ad un cumulo di cenere, un altro fu la sua ragazza ad essere bruciata, con l’acido, come i talebani nel Nepal, e allora decise di farsi giustizia da sé, in un vortice d’ingiustizia e d’istituzioni che non ci sono o che se ci sono non stanno mai dove dovrebbero stare. Un dramma sociale insomma, una denuncia bella e buona, e avrei voluto scriverlo tutto, ma incrociavo lo sguardo di mio padre che mi diceva “Ma che minchia fai? Il frocetto che scrive poesie?” e a vent’anni, non tanto per il frocetto o per le poesie, mi convinsi che dovevo mettere su basi solide per il mio futuro.

Eccomi, ingegnere come mio padre. Ma è l’unica cosa che ci accomuna. A cominciare dalla scelta patetica di pigliarsi per moglie una donnina inutile come mia madre. Ma è mia madre ed è solo per questo che mi limito ad un eufemistico “donnina inutile”.
Sono partito da te e guarda, sono ancora qui a rivedere la planimetria dei miei fallimenti.

Tu mi hai detto di finirlo quel romanzo. A me del romanzo non importa quasi più nulla, se non per quanto tu sai dirmi alla fine di ogni capitolo. Io come Penelope lo cancello e lo riscrivo per avere la scusa di chiamarti, di mandartelo via mail e sapere cosa ne pensi. E tu trovi sempre qualcosa di bello da dire. Come il giorno che c’incontrammo. In quel borgo sperduto del Salento. E ancora non ti eri sposata, saresti stata mia per sempre, mia-per-sempre, a ripensarci ora mi trema il cuore e mi maledirei per essere stato così stupido e sciocco, averti incontrata e lasciata andare, ma le distanze ci sembravano enormi, tu stavi lassù e io quaggiù, dovevi ancora laurearti e io non avevo uno straccio di lavoro, e ricordavo ogni centimetro della tua pelle profumata e ogni pensiero di sprovveduta innocenza riempire di suoni le tue risate. Mi sono innamorato di te allora e non te l’ho detto mai. E da allora io ti mando i miei files, e da allora indago i tuoi umori, e ti sento infelice, e vorrei prendermi a pugni per non esserti corso incontro quel giorno che mi dicesti, prima delle nozze, ”non ti ho dimenticato mai”.

Sono arrivato tardi, un giorno, sono arrivato come un ladro e ti ho rubato un pomeriggio, e abbiamo fatto l’amore per ore e come un ladro me ne sono andato lasciandoti in lacrime. “Perché adesso?”
E poi nacque Teresa. E io come un coglione continuo a scrivere una storia che cancello, e a litigare con geometri e sindaci che non capiscono un cazzo, ad arrotolarmi tra appalti truccati, invece di venirti a prendere, perché io so che tu sei mia, e forse lo è anche Teresa.

sabato 19 gennaio 2013

brevissima dinamica di coppia

Ci sono uomini che nel pieno delle loro facoltà mentali pensano di spaventarti dicendo "Guarda che non torno, eh, dormo fuori!". Cazzo che intelligentoni, non conoscono l'opzione - WOW, figo così quando torni non ti apro! - 
Ma vaffanculo, va'.



lunedì 14 gennaio 2013

Coming out (maddai??)

La notizia del giorno, è che a me dell'orientamento sessuale di una persona non me ne può fregare una beneamata fava. Calmi, calmi, prima di avvertirmi che sono madre, che potreste telefonare al Moige, e anche al parroco dove mia figlia frequenta il catechismo. Mi dispiace ma non posso fare a meno di considerare che nel 2013 anche solo l'idea di starne a parlare, sia una stratosferica cazzata. La notizia sarà tale quando ognuno sarà considerato per il clima di benessere in termini di onestà, intelligenza, impegno sociale e civico, apportato alla società. Ma proprio per dirvela tutta, trovo anche anacronistico stare a discutere se due omosessuali si amino come selvaggi o pudicamente come fidanzatini di Peynet, e trovo anche quantomeno inaccettabile che non si possa serenamente discutere sull'opportunità di aprire non solo alle coppie gay, ma anche alle adozioni. Con tutti i dubbi del caso, certo, ma anche con l'ausilio che gli strumenti scientifici, sociologici, psicologici ci mettono a disposizione. Ecco, stare ancora a rappresentarsi mentalmente la scenetta torbida dei due gay che non si contengono e s'inchiappettano appena svoltato l'angolo della cucina, è un pregiudizio. Non lo fa una coppia etero, in presenza di bambini, non vedo perchè lo debba per forza fare una coppia gay. Ah, poi c'è quella cosa del contronatura. Peccato che in natura 457 specie animali che vanno dai Primati passando per i felini lo trovino naturale. Ora davvero, io sono convinta che la forza di un essere umano, stia nel suo talento intellettivo, nella sua generosità, nella capacità di stare al mondo relazionandosi con gli altri in modo empatico, contribuendo a fare si che questo sia un posto migliore per tutti. Mi dispiace, non posso fare a meno di pensare così, perchè nel tempo ho imparato a guardare l'anima delle persone, gli occhi, e non i loro genitali o i loro comportamenti sessuali. Il resto ai miei occhi, non conta nulla. 
Conta solo l'amore.

giovedì 10 gennaio 2013

Cattiveria, ma anche no.

Io non mi ricordo così tanta cattiveria come nei tempi delle scuole medie. E del liceo poi. A parte che io ero la canonica sfigata, o tale mi sentivo, così mi percepivo. Ma insomma, basta poco anche ad autopercepirsi isolati, se poi mai nessuno t'invita ad una festa di compleanno, per dire. Ma si andava dalla cattiveria sottile del confronto, del paragone, dell'esclusione o dell'inclusione nel branco, da parte del capobranco, - di solito lo stronzetto/a più figo/a, più ricco/a- al ludibrio pubblico vero e proprio, al ludibrio vero e proprio, alla presa per il culo smodata. Tu e il branco. Non oso immaginare cosa sarebbe potuto succedere se ci fosse stato internet, all'epoca. E parlo di venticinque anni fa, e mi sembra ieri. Erano gli anni 80, quelli della Milano da bere e dei Duran Duran. Ricordo bene i cazziatoni di mia madre e l'educazione militaresca di mio padre, che allora mi sembravano l'ennesimo abuso ad una vita senza senso. Mi salvarono loro, invece, lo so adesso, mi salvò fare radio a sedici anni, andare in onda con un programma mio in una radio locale (e quindi un obiettivo), la musica. Ricordo un episodio ancora oggi, che la dice lunga di come l'adolescenza sia entrata prepotentemente come fenomeno moderno (e quindi ancora in fase di studio e sviluppo) nelle società "evolute", e su come ancora ci si debbano prendere le misure: Si sparse la voce di una ragazzina che ad una festa, infrattatasi in un cesso come una Melissa P. qualsiasi con non so quanti ragazzi, fu poi ricoverata per eccesso di fellatio, e da quello addirittura c'era chi giurava che le avessero fatto la lavanda gastrica e così via in un tourbillon di cazzate che fecero sparire ragazzina e famiglia dalla circolazione, tanto che nessuno seppe più niente di loro. Ed erano gli anni ottanta, e non c'era internet, e i nostri genitori erano diversi. Eppure queste storie si assomigliano tutte, oggi come venticinque anni fa, e non c'è sociologo che ancora ci sappia dire perchè. Però c'è quest'onda lunga di irresponsabile vuoto in cui non solo non sei ne carne ne pesce, ma anche gli obiettivi ti sembrano lontani (il mondo del lavoro, si ma quando per un quindicenne? Tra dieci, vent'anni?), e definirsi in un mondo che ti ha perso di vista, che ha smesso d'investire su di te, ti scoraggia. Non ho ricette, come certi guru o certi colleghi che li ascolti parlare di educazione e ti sembrano verità rivoluzionarie: dicono l'ovvio. E l'ovvio è che si è responsabili di se stessi per essere responsabili di altri. Che per essere responsabile di me stessa devo credere in quello che dico e testimoniarlo con la coerenza, e che solo quello ha importanza per chi mi sta accanto, in particolar modo per i figli. E ognuno è importante: è ora anche di smetterla di pensare che tutto possa essere fluido, liquido, che ogni cosa possa essere detta per scivolarci addosso senza lasciare nulla. Non è così: è importante ripensare alle relazioni, a come le instauriamo, al tempo che spendiamo con gli amici, la famiglia, all'autenticità che siamo in grado di offrire. Si chiama rispetto, ed è l'altra parola ovvia. Insieme a responsabilità. Rispetto dei sentimenti degli altri, oltre che dei propri. Rispetto dell'incredibile potenziale umano che sta in ognuno di noi, e che trascuriamo, anche qui, su un social come in qualsiasi altro luogo. Basta un nonsense per escludersi, per saltare come coyote sui cactus e lanciare invettive, montare pregiudizi. Non ci sono più scuse per rimandare oltre. Non si cambia il mondo se prima non si prova, almeno, a cambiare se stessi. E questo vale ovunque ci siano relazioni umane.

domenica 6 gennaio 2013

Vuoti a Perdere (nel mezzo del cammin senza aver lasciato mentalmente le scuole medie)

Di recente ho assistito in FB alla querelle tra un amico e un suo presunto amico. Ad un certo punto il presunto amico rinfaccia all'altro di essere stato buttato fuori dalla compagnia per non so quali presunti torti. La cosa mi ha fatto riflettere. Se si trattasse di adolescenti, anche tardo adolescenti, la cosa sarebbe normalissima, un rito di passaggio cui è impossibile sottrarsi, il cerchio chiuso, il branco etc. Ma il caso in questione riguarda persone che hanno superato da diverse lune la fase "ciccia e brufoli", e quindi è anomalo sentire dire da un adulto "sei stato buttato fuori dalla compagnia" quasi che la "compagnia" sia l'unico metro di socializzazione. Rimanda ad una prospettiva della vita in cui individui adulti, lontani dall'unica forma di apparentamento che ha dominato per secoli, cioè la famiglia e le sue tradizioni, si apparentassero sull'onda di un vuoto da colmare, - la cena, l'happy hour, l'inaugurazione di un nuovo locale, l'essere tifosi di una squadra piuttosto che un'altra-. In tali gruppi si intersecano diverse passioni tra persone che non condividono di fatto un valore, ma un vuoto a cui dare valore, e si vengono a creare sia nel web che fuori, i medesimi giochi di ruolo in cui esiste un presunto leader, un gruppo di sostegno, che se la canta e se la suona e che induce (talvolta in maniera ambigua) il membro non in sintonia ad andarsene. E' la società che scorre veloce, conoscenze approssimate su una medesima scala di pseudo valori, una botta e via, non mi piaci più ti banno, o ti evito per strada, così senza un perchè, o solo perchè non confermi più la mia identità di ruolo, dando ragione alle mie presunte certezze. Questo mi appesantisce l'anima.
*PS: la focosa interazione è nata da una considerazione giudicata blasfema e irriverente sul mondo del calcio, i calciofili, da presunti tifosi che non hanno potuto sopportare che ci fosse, perfino, gente a cui di tale materia non solo non ne potesse fregare un beato cazzo ma giudicasse il fenomeno roba da terza media.

mercoledì 2 gennaio 2013

Cinquanta sfumature di sardo (ma anche meno!)


" La Sardegna ancora mi ricorda Malta. Persa tra Europa e Africa, appartiene a nessun luogo, non essendo mai appartenuta a nessun luogo. Alla Spagna e agli Arabi e ai Fenici, più di tutto. Ma come se non avesse mai veramente avuto un destino. Nessun fato. Lasciata fuori dal tempo e dalla storia.(D.H, Lawrence)"

E no, mio caro Lawrence, la Sardegna (che d’ora in poi definirò l’Isola per antonomasia) non è stata lasciata fuori dal tempo e dalla storia. Dalla storia ci sono arrivati praticamente tutti e in tutti i tempi (dai fenici  alle olgettine e i tronisti), e tutti siamo riusciti a mandarli via, certo, dopo avere permesso che facessero danni quasi irreparabili; ma gran parte della nostra fierezza e dignità è rimasta integra. Restano ancora un paio di cose da definire, che ne so, la continuità territoriale, inculcare per bene a tutti che non siamo coloni (questo è uno dei danni quasi irreparabili), le rivendicazioni del nostro statuto autonomo, ma sono certa che tra un paio di generazioni saremo a cavallo. No, non quello della Giara di Gesturi. Quello, insieme ai fratellini, lo lasciamo ai turisti e al trenino verde, stanno lì da secoli e guai a chi ce li tocca.

Questo è un piccolo vademecum per te, turista che arrivi e conosci solo Alghero, Santeodoro, Villasimius e La Pelosa. E il mare, certo, il mare che è una favola, uno spettacolo, ma dove lo troviamo un altro mare così.
Infatti, fattene una ragione, non lo troverai.
O lo troverai senza i sardi e ti perderai gran parte del divertimento.
Innanzitutto perché i sardi nascondono curiosità dietro badilate di diffidenza: girovagando di paese in paese, ti potresti ritrovare inchiodato alla sedia di un bar per ore, a bere, a giocare alla morra, ad indovinare che cosa significhino espressione locali. Loro dicono che lo fanno per ospitalità: invece vogliono sapere che cazzo ci sei venuto a fare nel loro paese. Conosci il codice barbaricino, per esempio? No? Imparalo, e in fretta. Potrebbero pensare che sei un giudice sotto mentite spoglie o peggio un maresciallo dei carabinieri. Una volta inebetito dall’alcool e tranquillizzatisi che sei veramente un turista, ti trascineranno nelle loro case dove potrai trovare vitto e alloggio e musica. Il vitto non è male, ci mancherebbe. Enormi freezer a pozzo nascondono nelle cantine quintalate di ravioli e malloreddus fatti in casa (le donne del luogo vivono con l’incubo dell’ospite improvviso e ne producono quantità industriali, perché non si sa mai), mentre dai soffitti pendono salumi in stagionatura o stagionati che vengono subito lavorati per permetterti di assaggiarne un po’, quei due o tre chili prima di pasto, insieme ad un quarto di forma di pecorino che non si nega a nessuno, neppure ai carabinieri.
Poi, ci sono le sagre, le processioni, i costumi variopinti, Su Ballutundu, e il piri piri delle launeddas. E non ridere che le launeddas sono cosa seria. Ci vogliono canne speciali, da lavorare in modo speciale, e un esercizio pauroso per emettere quella melodia. Un suonatore di launeddas ha le guance come quelle di Louis Amstrong mentre suonava la tromba.
I sardi hanno rapporti conflittuali con il mare e con il continente che è un luogo lontano: perfino un non luogo parafrasando Augè (un antropologo francese, nulla di che). E la cosa divertente è che il sardo misura le distanze in base alla sua isola. E se, faccio per dire, il viaggio Cagliari Sassari gli sembra un’odissea, tanto da fargli venire voglia di riempirsi di vernaccia una borraccia, e la bisaccia di pane carasau e pecorino, rincorrendo le origini ataviche della transumanza, una volta in continente il concetto della distanza si resetta e tutto sembra a portata d’auto. Non è difficile sentire dire “Mah, una volta che eravamo a Torino, siamo andati a Bari, tanto eravamo già lì”.
Lì dove??
Ma poi, caro Lawrence (e caro turista), ti sei dimenticato di dire, che noi la storia l’abbiamo fatta: nessuno ci ha preso sul serio. Vorrei raccontarti di Eleonora D’arborea, pensa te, una donna, che alla fine del 1300 diventa giudicessa del Giudicato d’Arborea (veri gioiellini di democrazia), e aggiorna la Carta de Logu, promulgata dal padre, introducendo note significative a tutela delle donne, e dell’autonomia del popolo sardo, contro l’usura e molto altro ancora.. La Carta de Logu resterà in vigore fino al 1827, soppiantata dal codice di Carlo Felice (felice una beata fava).
Ecco, d’ora in poi, quando ti capiterà di sbarcare sull’isola, ricordati che stai passeggiando sulla terra dell’unico premio nobel donna della letteratura Grazia Deledda, dei tanti talenti letterari e artistici (bastano Gramsci, Fois, Niffoi, Murgia, Satta, Ledda, Antonio Marras e Modolo– stilisti internazionali – Gavino Sanna – pubblicitario - Benito Urgu, Andrea Parodi, e ci metto pure De Andrè che qui scelse di vivere, di Eleonora d’Arborea e tanti altri che mi sfuggono)?
E noi sardi, ce lo ricordiamo, che abbiamo la terra, il sole, il mare, e il genio che appartiene solo a noi e che ci permette di essere autonomi e di esportare valori e democrazia, perché la democrazia noi, lo stato di diritto, l’abbiamo imparato prima di tutti?