martedì 5 marzo 2013

Il corpo delle donne e la distanza dell'intelletto

*Questa riflessione nasce nel 2009, in seguito ad un fatto di cronaca riguardante lo stupro di gruppo e la difesa patetica di una comunità verso gli aggressori. E' uno dei tanti pezzi scritti prima che si diffondesse il neologismo "femminicidio" e prima dei girotondi di se non ora quando.


IL CORPO DELLE DONNE E LA DISTANZA DALL'INTELLETTO.
(di Patrizia Cadau Novembre 2009)

Attento.
Dalla cenere io rivengo
Con le mie rosse chiome
e mangio uomini come aria di vento.

Rubo a Sylvia Plath la chiusa della sua bellissima Lady Lazarus, e parto da qui, da uno strato di polvere che ci ricopre fino a renderci invisibili e lontane, qualcosa di cui nemmeno parlare più.
Assisto da anni, al blaterare convulso e sincopato di quote rosa, diritti, omicidio in famiglia, 194, pillola del giorno dopo, infibulazione, violenze domestiche, stupro. Mi fermo qui, allo stupro, cercando di scuoterlo dalle pareti solide del vostro/nostro pensiero abitudinario, assuefatto, riportando la parola alle sua proporzioni tragiche. Ognuna di quelle parole che ho scritto più su, veicola vagoni di tragedie collettive e personali, ognuna di quelle parole viene riproposta uguale concettualmente, ma diversa per luoghi e protagonisti, in ogni tempo e luogo in cui l’umano abbia messo piede.
Ognuna di quelle parole, anche il numero 194, riporta semanticamente ad un proliferare insulso di dibattiti di gente che è uscita da una vagina una volta senza probabilmente nemmeno più rientrarci, o di gente che vorrebbe entrarci ma non può o non sa, e comunque, non potrebbe mirare ad altro, non di certo ad un anima o al pensiero di una donna. Non voglio inchiodare alle assi della propria ineducata responsabilità i maschi, per carità, i maschi hanno avuto madri che hanno perpetuato un modello becero e conveniente, e per questo non sono superiori né inferiori, in taluni casi neppure vittime. Complici e basta.
Basta assistere alla serena rassegnazione con cui veniamo bistrattate, usate, volgarmente clonate in prototipi gommosi, denudate all’eccesso, con mutande sempre più somiglianti a giro clitoridi, oppure coperte fino a non poter vedere se non attraverso una retina.
I tempi sono quelli che sono, ma se fino a ieri ci potevamo nascondere dietro facili mancanze di consapevolezze, oggi no, questo non è permesso. E’ intollerabile, ributtante che siamo ancora qui a raccontarci di uno stupro giustificato da una comunità quasi come una bravata di poveri anatroccoli sfuggiti all’ala comprensiva della mamma e del buon senso, mi è insopportabile vedere ragazzine adoranti scrivere messaggi adoranti e deliranti indirizzati ai carnefici, mentre ad una loro coetanea veniva strappato a morsi, schiaffi e a colpi di cazzo la vita, il futuro, la spensieratezza. Inorridisco di fronte a questa gente complice, a queste giovani donne (ma le madri dove sono?), questo clima in cui sembrerebbe ovvio, civile, scontato, che non ci fossero parti in cui stare, talmente grande ed evidente la colpa, talmente grande ed evidente la parte in cui stare, quella degli onesti, che ancora provano vergogna per se stessi, la vergogna degli onesti di cui parlava Primo Levi ne “La tregua” quando incrociava gli sguardi dei primi soldati russi nel campo, che non potevano credere che si fosse arrivati a tanto.
Noi a quel tanto stiamo arrivando. Montalto di Castro, un paesino inutile come il suo sindaco, ci è arrivato.

Ricordo tempo fa, facevo il liceo, per un anno si parlò di una ragazza che durante una festa di compleanno si prestò a tante di quelle fellatio che fu portata d’urgenza all’ospedale per una lavanda gastrica. Io quella ragazza la ricordo benissimo, ricordo bene anche che d’improvviso un giorno non venne più a scuola. La sua famiglia si trasferì. Era un civile paese del nord quello di cui parlo, e la ragazza in questione nulla di più che una ragazzina esuberante con la fissa per Madonna. Immagino che ora stia bene, ma non oso immaginare come abbia passato quel tempo, mi chiedo perché nessuna di noi l’avesse difesa, perché una cosa tanto greve può degenerare fino a diventare marchio a fuoco sulla pelle viva di qualcuno. Con la complicità di tutti. A Montalto è successo di peggio, naturalmente. Con i poveri anatroccoli e il comitato di ragazzine che fanno il tifo e gli adulti che ci meravigliano con perle di saggezza tipo“Avrei fatto la fila anche io”. I media, ci dicono, distorcono. Distorcono e parecchio, ma la rete non mente, e la rete dice. Dice che siamo complici. Non vittime.

Esibiamo disprezzo di fronte alle lapidazioni iraniane, ai pestaggi rumeni, mentre nel settanta percento delle nostre abitazioni permettiamo ai nostri uomini, figli, fratelli, compagni, di pretendere, ci spalmiamo sul loro sentire, sintonizzandoci su ogni maschiocazzata comprensiva di ogni delegittimazione di responsabilità. Che sia pure un carico di lavatrice o lo stiramento di una camicia. Permettiamo di svenderci al mercato delle siliconate, andiamo in crisi per una ricrescita, una ruga, non battiamo ciglio di fronte alle macro cagate con cui c’imbottiscono in televisione, le testate di gossip vendono milioni di copie. E di alcuni premi nobel non si trova più traccia, come la Jelinek, per esempio, Elfriede Jelinek con il suo “Le amanti” non esiste più in italiano. Alfonso Signorini e i suoi grandi fratelli e sorelle smutandati si, e la Jelinek no. Perché?
Perché non sento partire un urlo collettivo, lancinante, più forte di questo chiacchiericcio sterile, perché non sento l’urlo per Marinella, per ogni donna offesa, perché non sento le donne stesse farlo, unite, compatte.
Mi è bastato leggere questa mattina la “discreta” Serracchiani, incapace di unirsi ad un moto di sdegno evidente, per capire che siamo lontani da quell’urlo, da quella presa di distanza per riportare proporzione e dignità al nostro sopravvivere da aliene nel nostro stesso pianeta.
(Patrizia Cadau, 11/2009)

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