sabato 29 dicembre 2012

Urla sommesse di due donne perbene (Femminicidio)


Mio marito mi picchia.
Mio marito si fa per dire perché non siamo sposati. Ma comunque niente di che, solo qualche schiaffo ogni tanto, quando non obbedisco e non mi faccio minacciare, esattamente come i cani.
Ma schiaffeggiandomi mi concede almeno un privilegio riservato agli umani, giacchè al limite gli animali si frustano o bastonano per renderli mansueti. Non si schiaffeggiano. Quindi è una consolazione.
 Lui sostiene che siano carezze d’amanti, che il picchiare sia un’altra cosa, eppure lo fa regolarmente da anni.
E’ il suo modo di prendersi cura di me, e se vogliamo è una cosa nobile, soltanto, ecco, avrei voluto saperlo prima che questo era il suo modo, avrei voluto saperlo sin dall’inizio, e invece all’inizio erano si carezze d’amanti, ma in salsa melange.
 Queste anticipano lo scarlatto del sangue.
Ma c’è da capirlo. Forse non pulisco bene, e non sono granchè in cucina, probabilmente mi trascuro, e sicuramente lui ha problemi sul lavoro.
Perché io, sia ben chiaro, non lavoro.
Mi occupo solo di accudire, crescere ed educare nostra figlia, delle faccende domestiche, dare lezioni private, e sono in servizio ventiquattro ore al giorno, perché da quando c'è la bambina, per esempio, per me non c’è più stato un sabato o una domenica, o una notte intera di riposo filato.
Ma lui lavora. Produce. E io non faccio un cazzo sia ben chiaro.
In realtà io il lavoro certo lo cerco. Se non altro per non farmi dire queste cose che a ben vedere ti scendono dalle orecchie al cuore e poi al fegato con la velocità degli ultrasuoni e ti lasciano frastornata come un colpo di gong.
Ma a trentacinque anni, la mia laurea con 110 e lode, pare non serva a nessuno.
Lui mi dice che ho la laurea delle caramelle. Lettere, parole, roba inutile.
E’ vero, se invece di occuparmi di scienze umane mi fossi occupata di scienze vere e proprie, probabilmente non saremmo nemmeno qui a parlarne.
E invece no, ho avuto questo inutile e stupido senso di cercare di capire il mondo.
La pediatra di mia figlia si stupiva del fatto che invece di essere in grado di riferirle il peso e l’altezza della bambina fossi assolutamente preoccupata delle sue competenze emotive.
Sapeva riconoscere le faccine degli orsetti che era piccolissima.
Sapeva ricondurle a delle emozioni primarie.
Ma questo non produce. Non fa reddito. Non conta un cazzo.
Deve averlo capito anche lei ieri sera quando a tre anni, per l’ennesima volta, ha visto il babbo schiaffeggiare la madre, strattonarla.
Avrà capito che il babbo esprimeva rabbia.
Che la mamma esprimeva paura.
Ma non penso che sia stata felice di comprenderlo.
Ma sono carezze, queste.
Dice che lo istigo. Per lui, chiedergli “Dove sei ?” mentre fuori si è scatenato il temporale è istigazione. Non so, è successo stamattina. Gli ho fatto questa domanda al telefono, evidentemente sciocca, perché lo sapevo in macchina, magari in qualche ufficio lontano e gli ho chiesto “Dove sei?”. Bastava dire “Qui”. Invece sembrava gli avessi chiesto un resoconto dettagliato della trilogia Kant sotto minaccia di un’arma.
Perché lui lo fa. Minacciare o spaventare, intendo.
Una volta mi ha puntato la canna della sua pistola in bocca, così per spaventarmi e chiudere una discussione che lo stava infastidendo.
Scarica, ha precisato dopo.
Una pistola regolarmente detenuta.
Ma sono chiacchiere di un’isterica. Dice.
Dice che tanto anche se vado dai carabinieri sono un’isterica.
Mi ha detto che mi serve un sostegno psichiatrico: ne convengo, e infatti gli ho detto che questa mattina sarei andata al consultorio perché effettivamente è probabile che io abbia bisogno d’aiuto.
Allora si è spaventato e ha cominciato la sceneggiata: urlava come se io lo stessi aggredendo.
Probabilmente aveva sentito il vicino armeggiare di chiavi nel pianerottolo. Io gli stavo a due metri e lui mi gridava che ero pazza e di smetterla di picchiarlo.
Non si sa mai, ha aggiunto poi, piano. Magari mi stai registrando col telefono.
Perché, lui dice, che io abbia la sottile capacità di alterare la realtà.
Eppure ricordo bene che l’abitudine alla menzogna ce l’avesse lui. Non io. Per carità, piccole cose, dettagli. Per esempio che avesse una compagna e un altro figlio io non lo sapevo.
Nemmeno che fosse pieno di debiti.
Nemmeno che non volesse bambini. Perché un paio di settimane prima avevo sentito bene, certo, ne sono sicura, una donna non dimentica certe cose: facciamo un bambino.
E io sono rimasta incinta.
E lui mi ha detto disfatene.
Perché era spaventato, poverino.
Ma io dovevo capirlo che lui quelle cose, prima, me le diceva per farmi stare tranquilla.
Io intanto la bambina l’ho tenuta e me ne sono andata da mia madre.
Ha detto un sacco di bugie anche a lei.
Ma nelle sceneggiate è bravissimo. A ripensarci quella di ieri, della mia finta aggressione intendo, ricorda un po’ quella di qualche anno fa. Lì mi trascinò da sua sorella, che neanche conoscevo, dicendole che lo avevo minacciato con un coltello. Io in effetti ero un pochino rintronata dagli ansiolitici, ne prendevo un po’ per dormire, ma di solito al limite, si aggredisce la gente sotto l’effetto della coca. Mi pare, ma mi pare, sia chiaro, perché lui è quello che ricorda bene, che invece io con il coltello ruppi qualcosa di carta, un abat jour, di quelle giapponesi in carta di riso, ma minacciare lui, no, per carità.
Ci metterei la mia inutile e improduttiva mano sul fuoco.
Quando la ginecologa mi spedì dallo psichiatra in consultorio per un sostegno, nei tempi in cui lui mi picchiava perché io abortissi, mi disse che forse avrei dovuto allontanarmi.
E allora sono andata da mia madre e mio padre.
Ho sepolto tonnellate di orgoglio sotto badili di merda.
Perché mia madre e mio padre non è che fossero rimasti folgorati dall’entusiasmo quando seppero di lui. Di lui nella mia vita.
Però in qualche modo trovavo ancora una giustificazione.
La ex l’opprime. La società l’opprime. Il lavoro l’opprime.
Per qualche ragione gli ho fatto ancora spazio nella mia vita.
Che presunzione. Volevo renderlo felice. Invece sono una donna di merda.
E’ che io forse sbaglio, ora, ma non vedo più una giustificazione.
 Ma quello che dice, poi lui mi dice, non conta. Perché non riesco a leggere invece la richiesta d’amore invocata in questi comportamenti?
E’ un mio problema, ovvio.
Come quando bestemmia. Si avvicina e digrigna i denti e poi ringhia solo porcodio porcodio.
Ecco, quello sa che può mandarmi in bestia. A me per provocarlo mi verrebbe da dire “Tuo figlio è un bastardo”. Così, per fargli male. Ma non è giusto.
Se non altro perché è assodato da fior fiore di letteratura che Dio non sia un porco, mentre ci sono buone probabilità che il suo primogenito, con la madre che si ritrova sia realmente un bastardo. Il che fanno due opportunisti: del resto l’abitudine alla richiesta di denaro è loro mica mia.
Di denaro in cambio di figa invece, puntualizzo, era specialità esclusiva di tutte le sue ex.
A detta di molti.
Io invece, mi sono accollata i debiti, comprensivi anche degli assegni di mantenimento.
Più lui che arriva tutte le sere con l’allure di un lichene selvatico.
E’ un privilegio, mi ha detto, che io torni, perché li fuori ci sono migliaia di donne abbandonate con i figli dai loro uomini.
Io credevo fosse un privilegio avere la colf.
Perché io le incontro queste donne abbandonate coi figli e mi sembrano vive, rinate, il sabato si liberano dei bambini e vanno a teatro, di solito si ritrovano alloggi pagati, rendite. Si, non dico che sia il massimo, però a ben vedere lei, la ex intendo, piglia i soldi e le camicie a lui gliele stiro io.
Male certo.
Ma gliele stiro.
Ma comunque, queste sono fesserie di poco conto, minuscole rivendicazioni piccolo borghesi di una casalinga isterica.
Parliamo delle cose serie.
Ci sono anche quelle carezze verbali che mi piovono leggere come coriandoli.
A parte gli insulti “PUTTANA”, scritto così sul telefonino.
Una volta me lo disse anche dopo avermi tirato sulla schiena la scopa dell’aspirapolvere, ed era adirato perché il cassetto delle canottiere era in disordine e non ne trovava una a maniche lunghe.
Io ho perso la lista di questi momenti. Li tenevo zincati in testa non per ritorcerglieli contro, no, ma per capire.
Sono intelligente, devo capire.
Capire cosa scatenasse l’aggressività. Ma ho perso il filo. Glielo chiedo perché si comporta così. E lui dice che lo istigo.
Forse sono tonta. Non capisco in che modo. Non me lo dice e io non lo capisco.
Ogni volta qualcosa si spezza. Ho incollato i pezzi tante di quelle volte che ormai non so nemmeno io perché rimangono su.
Adesso mi infastidisce anche la sua presenza, la sua vicinanza, il suo odore.
Non solo me. E’ palese che le persone lo trovino naturalmente antipatico e sprezzante, ma non le persone in genere, anche la sua famiglia se può lo evita.
Prima pensavo fossero stronzi loro, ora sono certa che l’unico stronzo sia lui, e quella grandissima irresponsabile di sua madre che non gli ha mai dato in consegna l’onere della responsabilità. Poverino. Dice lei quando parla di lui.
Mi è rimasto un sogno. L’unico. Vorrei dimostrare a mia figlia che non sono un’idiota, che sono lontana anni luce dagli insulti del padre, vorrei il potere contrattuale di tenergli testa, forte di qualcosa di concreto. Anche per andarmene via e smetterla di fargli da cestino dell’immondizia.
Ma l’ho pensato troppo tardi. Perché un giorno, la pistola l'ha puntata carica. E di me è rimasto solo il corpo disfatto e l’abbraccio di mia figlia a proteggermi da una furia che è stata fatale per entrambe.

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